Sulla cresta dell’onda. Gastone Nencini e quel 1960 (Edizioni Sarnus-Polistampa) un racconto appassionante che mostra lo spessore sportivo e umano di un grande campione ed effettua un focus significativo su una stagione epica del ciclismo. Infatti il libro scritto dal figlio Giovanni fa riferimento al Tour de France del 1960 che vide l’impresa epica di Gastone Nencini e si avvale di una chiave narrativa coinvolgente: un dialogo immaginario fra il giovane giornalista Armand incaricato di rievocare episodi particolarmente rilevanti della Grande Boucle e un anziano cronista, Auguste, che aveva seguito quella corsa come inviato. Gli incontri si tengono in un ridente paesino della Provenza dalle parti del Mont Ventoux luogo-simbolo delle grandi tappe alpine e si snodano in ristoranti, bistrot, fiumi dove si pescano trote e soprattutto nella casa del vecchio Auguste. Il racconto ripercorre tappa per tappa quella edizione del Tour ricca di colpi di scena e episodi, per ceti versi unica .Nencini, un Italiano subito entrato nel cuore dei francesi conquista la maglia gialla nella prima tappa a Bruxelles (una memorabile soddisfazione per i minatori italiani emigrati in Belgio) poi la perde ma la riconquista di forza sui Pirenei con una fuga leggendaria
Rivière, l’astro nascente del ciclismo francese (grande pistard, detentore del record dell’ora) era l’avversario principale del campione toscano e lo tallonava sapendo che poteva batterlo nella volata finale.
Ma quando si arrivò alla tappa delle tre salite terribili, il Tourmalet, l’Aspin e il Pereysourde, si susseguirono i colpi di scena. La cima dell’Aspin è immersa in una coltre di nebbia. Rivière stringe i denti, riesce a rimanere nel gruppetto dei primi ma sull’ultimo colle Nencini attacca e nella discesa aumenta il vantaggio. Scende come solo lui sa fare. Le traiettorie sembrano disegnate da una mano invisibile, una mano d’artista.
Dai Pirenei alle Alpi nuove emozioni ma la maglia gialla è saldamente sulle spalle dell’italiano. Poi l’evento drammatico della rovinosa caduta di Rivière
Infine, a Parigi, l’apoteosi del Parc des Princes, l’Olimpo del ciclismo, dove solo tre italiani (Bottecchia, Bartali, Coppi) prima di lui erano arrivati in maglia gialla.
Il Tour del 1960 è rievocato con l’agilità di una cronaca dal vivo ma nel libro non c’è solo questo Ci sono le discussioni che avvengono ogni sera fra i ciclisti, i direttori sportivi, i commenti e le previsioni dei giornalisti, le questioni legate agli sponsor
Ne abbiamo parlato con l’autore, Giovanni Nencini.
D. Com’è nata la scelta di ripercorrere quel Tour de France in forma di dialogo a due voci? R. In effetti avevo iniziato il libro in forma diversa, con un io narrante che raccontava di quel Tour, in sostanza io che raccontavo di mio padre. Ma questo tipo di stesura mi coinvolgeva troppo emotivamente, quando scrivi sei solo con te stesso e con le tue emozioni, quindi ho deciso di cambiare. Ho trovato questa soluzione, quella di un vecchio giornalista che racconta quel tour che ha vissuto come inviato ad un giovane collega. Questo mi ha permesso di essere più distaccato rispetto ai miei sentimenti ed emozioni, i giornalisti per di più sono francesi e questo mi ha consentito di essere più imparziale nel racconto. Tra l’altro, questo modo di raccontare quelle vicende è piaciuta molto ai lettori.
D.A quali fonti hai attinto per costruire il racconto?
R. La storia del Tour vinta da mio padre, ovviamente, la conoscevo bene. Il babbo non parlava molto delle corse poi è venuto a mancare quando io ero ancora giovane. Ma gli zii erano la memoria storica della carriera del babbo, dai loro racconti ho preso molto. Comunque ho fatto anche una ricerca accurata sulle riviste sportive dell’epoca: Lo sport lllustrato, prima di tutto, ma anche riviste francesi come il Mirroir du Sport. Poi i libri, ce ne sono due fondamentali, “Il Giallo e il Rosa” scritto da mio cugino Riccardo e “Nencini” scritto da Gianni Cerri. Infine ho parlato con i corridori, Ercole Baldini che era a fianco del babbo in quel Tour, e che è stato di grande aiuto, e Vittorio Poletti amico e gregario di mio padre.
D. Perché il ciclismo aveva questa aura di leggenda… e perché si è persa nei decenni successivi?
R. Il ciclismo è stato fin dall’inizio fatto di imprese epiche e di uomini eccezionali. Corse massacranti come i primi Tour, con tappe di oltre 400 km su strade ai limiti della percorribilità, 15-18 ore in sella, salite impossibili affrontate con qualsiasi tempo e con mezzi che avevano al massimo il “giroruota” come possibilità di variare i rapporti, tutto questo ha appassionato il pubblico che, tra l’altro, per la stragrande maggioranza, in una società ancora povera, riconosceva e si identificava con la fatica e la sofferenza di quei corridori. E poi la possibilità di vederli da vicino, Il Tour o il Giro passavano davanti all’uscio di casa. Tutto questo ha alimentato la leggenda del ciclismo, che ha cominciato a diminuire quando questo sport ha perso queste caratteristiche e, via via, è diventato meno duro e sempre più soggiogato ad esigenze economiche di sponsor e procuratori. Non è un caso che corse come “Le strade bianche” o “L’Eroica” abbiano questo successo. Gli sportivi vogliono un altro ciclismo, non quello delle radioline con cui la squadra da ordini al ciclista, ma quello dove il corridore sia protagonista e corra infiammando il pubblico.
D. Quel Tour del ’60 incrocia anche la storia d’amore dei tuoi genitori?
R. Il 1960 fu un anno magico per il babbo, secondo al Giro e vittoria al Tour, per poco non sfiorò una storica doppietta che in pochi hanno ottenuto. Io sono convinto che se il babbo ebbe quell’annata eccezionale molto lo deve al fatto di aver trovato, all’inizio di quell’anno, il grande amore della sua vita. Questo, secondo me lo rese fortissimo, correva con serenità, con animo leggero. Nel libro lo scrivo: gli altri corridori non dovevano confrontarsi con un avversario, ma con uno stato d’animo. Nel libro pubblico le bellissime lettere che il babbo scrisse a mia madre da quel Tour: ne viene fuori un uomo dolce e innamorato che è stata anche per me una sorpresa. Un amore bellissimo e complicato, tutti e due già sposati, un amore clandestino quindi, e nel 1960 si rischiava anche di finire in prigione per adulterio.
D. Il libro sta avendo un bel successo. Ma quali sono stati i commenti dei lettori giovani e anziani?
R. Il libro in effetti sta piacendo molto, non pensavo in tutta franchezza che ottenesse tutti questi consensi. Devo dire che piace a tutti, gli anziani rivivono ricordi della loro gioventù. I giovani scoprono un ciclismo diverso. E poi si scopre non solo il Nencini corridore, ma anche la sua vicenda umana. Il libro poi piace anche a chi non ha mai seguito questo sport, lo ha trovato avvincente e appassionante. Anche il pubblico femminile lo ha apprezzato molto.
D. Quanto sei legato oggi al mondo del ciclismo?
R. Molto. Ho un negozio in cui vendo e restauro bici d’epoca. Pedalo tanto e partecipo a molte ciclostoriche che trovo divertentissime. Nel mio piccolo poi cerco di divulgare il ciclismo storico e d’epoca. Il ciclismo nella mia famiglia è sempre stato pane quotidiano